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DIRITTO DEL LAVORO

IL DIRIGENTE SCOLASTICO NON PUÒ RESCINDERE IL CONTRATTO DEL SUPPLENTE NONOSTANTE IL RIENTRO DEL TITOLARE

Il dirigente scolastico non può rescindere il contratto del supplente, ma mantenerlo in servizio, rispettando la scadenza indicata nel contratto a tempo determinato già stipulato, nonostante il rientro del titolare.
Le condizione risolutive del contratto individuale di lavoro per il personale assunto a tempo determinato sono stabilite dall’art. 8 del D.M. n. 131 del 2007, “Regolamento, recante norme sullemodalità di conferimento delle supplenze al personale docente ed educativo”; i commi 1 e 2 indicano, in effetti, le cause che potrebbero determinare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, in primis la mancata assunzione in servizio dopo l’accettazione o l’abbandono del servizio stesso, mentre giammai potrebbe accettarsi una revoca del contratto per rientro anticipato del titolare.
La privatizzazione del pubblico impiego ex D. Lgs. n. 29 del 1993, ora D. Lgs. n. 165 del 2001, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenzedelle amministrazioni pubbliche”, ha definito nel rapporto di lavoro una parità tra le parti che esclude ogni iniziativa unilaterale, in capo al datore di lavoro, volta appunto a modificare o revocare il contratto.
Il datore di lavoro, pertanto, non può trasferire i principi di autotutela e revoca, tipici del diritto amministrativo, nell’ambito dei contratti di lavoro, regolati invece da norme privatistiche.

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DIRITTO TRIBUTARIO

ILLEGITTIMO IMPORRE IL CONTRIBUTO INDIPENDENTEMENTE DAL BENEFICIO

IL CASO DI UN CONSORZIO DI BONIFICA DI CATANIA

Gli antichi romani costruirono numerosi acquedotti per veicolare l’acqua da sorgenti distanti nelle loro città, rifornendo thermae, latrine, fontane e abitazioni private. Le acque di scarico venivano eliminate con complessi sistemi fognari e scaricate in corsi d'acqua nelle vicinanze, mantenendo le città pulite e prive di effluenti. 
Gli acquedotti romani veicolavano acqua esclusivamente per gravità, essendo costruiti con una leggera pendenza verso il basso (20,8 cm per km) all'interno di condotti di pietra, mattoni o cemento. La maggior parte erano sepolti sotto terra. Le arcate costituivano meno del 20% degli acquedotti, che per la maggior parte avevano un percorso sotterraneo. Le sezioni sotterranee degli acquedotti erano rese accessibili tramite pozzetti e condotti. Questo tipo di progettazione era più efficiente dal punto di vista economico, non solo perché gli acquedotti erano protetti dall’erosione, ma anche perché era ridotto al minimo l’impatto sui campi e sui vicini centri abitati.  Dove vi erano valli o pianure, il condotto era sostenuto da opere con arcate o il suo contenuto era immesso a pressione in tubi di piombo, ceramica o pietra e sifonati. La maggior parte dei sistemi di acquedotto comprendeva vasche di sedimentazione, paratoie e serbatoi di distribuzione per regolare la fornitura secondo le necessità.
Un Consorzio di Bonifica di Catania ha acquisito perfettamente lo schema degli antichi acquedotti romani, ma, mentre i primi, dopo 2300 anni e senza alcuna manutenzione, ancora sussistono e addirittura alcuni sono funzionanti, lo stesso non si può dire per quello inaugurato nella provincia etnea nel 1959.
A distanza di soli 60 anni, infatti, i consorziati usufruiscono di «reti fatiscenti che hanno giustamente sollevato contestazioni e creato contenziosi», come ha anche dichiarato il Presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, in una conferenza stampa a Palazzo d’Orleans in data 20/06/2019.
Dalla fine degli anni novanta, inoltre, è stato concesso l’approvvigionamento dell’acqua di irrigazione, di esclusiva pertinenza dei “vecchi” consorziati, anche a nuovi consorziati ricorrendo ad un escamotage consistente nell’alterazione del precedente quadro orario, semplicemente dimezzando le ore di erogazione tramite un presunto raddoppio di portata sulla canalizzazione secondaria, fatiscente e a pelo libero; la canalizzazione principale “ospita”, tutt’ora, degli sbarramenti per innalzare il livello dell’acqua, che non è mai sufficiente per arrivare alle bocchette di derivazione che permettono all’acqua di essere travasata nella canalizzazione secondaria; inoltre, per inciso, la canalizzazione principale a pelo libero, con portata teorica di circa tre metri cubi al secondo, non è provvista di alcuna rete di protezione laterale, per cui tutto quello che vi cade dentro, persone, animali o cose, viene trascinato via senza scampo. 
Prima che spuntassero dal nulla i “nuovi” consorziati, per i quali si devono intendere i proprietari di terreno sopra quota 100, precedentemente esclusi dal diritto di prelevare acqua per irrigazione, la portata dell’acqua, nei canali secondari e terziari, era di 10 litri/sec (teorica; reale: 5÷7 litri/sec) e non di 20 litri/sec (portata impensabile e impossibile anche per una canalizzazione nuova ed efficiente) e il turno durava il doppio di ore (quindi non 27,5 ore, ma 55 ore).
Ad ogni modo, dal 1959 ad oggi, il fondale dell’invaso della diga non è mai stato dragato per consentire una eventuale maggiore riserva d’acqua.
Ma la “bomba” esplose all’inizio della stagione irrigua 2014 (anche se c’era stato un tentativo di “estorsione” nella stagione irrigua 2007, subito revocato), perché i costi annui schizzarono alle stelle: per il contributo irriguo, cod. 0750, si passò da € 170/Ha del 2013 a € 204/Ha del 2014; per il contributo spese fisse, cod. 0648, da € 86,11 del 2013 (nel caso in esame) a € 455,69 del 2014, perché il “nuovo” contributo spese fisse faceva riferimento al Reddito Domenicale Rivalutato, il quale, secondo la ratio per la quale è stato istituito, comprendeva, non più l’effettiva superfice coltivata, ma l’intera proprietà, quindi anche caseggiati, stradelle, laghetti, frangivento, scarpate, fossi di scolo, recinzioni, ecc., comprese anche le canalizzazioni secondarie e terziarie, con le loro pertinenze quali ponti, pozzetti, sottopassi, di proprietà del Consorzio (giusta esproprio per la costruzione e la manutenzione delle suddette opere). Per cui, a conti fatti, costava di più il contributo per spese fisse che il contributo irriguo.
In conclusione, chi aveva come unica fonte di reddito la coltivazione del proprio fondo, fu costretto a chiedere prestiti alle banche, con relativo aumento di vendita all’asta di case e terreni dati in garanzia. Altri furono costretti ad emigrare, incrementando l’annoso problema dell’esodo dalle campagne. 
Ad oggi, sempre più proprietari terrieri si recano presso gli studi legali per chiedere l’attivazione di tutte le procedure idonee a fronteggiare l’imposizione dei contributi irrigui dei Consorzi di Bonifica. 
Orbene, per l’adempimento dei propri fini istituzionali, i Consorzi di Bonifica necessitano di notevoli risorse economiche, cosicché, oltre a godere di sussidi statali e regionali, hanno il potere di imporre contributi alle proprietà consorziate.
Tali contributi sono oneri aventi natura reale in quanto gravano sui fondi ricompresi all’interno del comprensorio di bonifica di competenza del singolo Consorzio.
A tal proposito, la ripartizione della quota di spesa tra i proprietari dei fondi deve essere fatta in ragione dei benefici specifici e diretti conseguiti dai singoli immobili per effetto delle opere di bonifica realizzate e mantenute in efficienza dal Consorzio.
Ciò emerge chiaramente dal sistema di disposizioni normative dettate a livello nazionale dall’ancora vigente R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, recante “Nuove norme per la bonifica integrale”, nonché dalle specifiche leggi regionali attuative, che attribuiscono ai Consorzi il potere di imporre contributi esclusivamente in presenza di opere di bonifica effettivamente funzionanti e produttive di benefici specifici e diretti sui fondi ricompresi nel proprio ambito di competenza istituzionale.
Tuttavia, non è difficile riscontrare che i Consorzi impongono, frequentemente e in modo illegittimo, il loro potere impositivo per il mero fatto dell’ubicazione geografica degli immobili all’interno del comprensorio di appartenenza.
Il sistema normativo e l’interpretazione di quest’ultimo, offerta da un consolidato orientamento giurisprudenziale, evidenziano, invece, che tale potere può esplicarsi esclusivamente in presenza di un’opera di bonifica dalla quale scaturisce una utilitas specifica per il fondo facente parte del comprensorio.
Per giustificare il loro potere impositivo, sovente i Consorzi sostengono di avere realizzato delle opere dalle quali deriverebbe un imprecisato “beneficio di carattere generale”. In particolare, non riuscendo a individuare il concreto beneficio specifico e diretto che ciascun fondo dovrebbe trarre dall’attività di bonifica, i Consorzi si limitano a vantare di aver migliorato con le loro opere la salubrità dell’aria, l’igiene ambientale, l’assetto territoriale, ovvero si spingono fino ad affermare che il mero fatto di aver progettato il miglioramento fondiario sia di per sé un’opera sufficiente a legittimare l’esazione dei contributi. Oltremodo, ciò corrisponde ad ammettere l’infondatezza della loro pretesa impositiva, essendo assente il beneficio specifico e diretto, richiesto ex lege, a favore degli immobili facenti parte del loro comprensorio.
Tutto quanto è confermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale la prova dell’esistenza di un beneficio generico risulta irrilevante quale giustificazione della pretesa contributiva consortile.
Accade non di rado che il Consorzio, in sede di contenzioso tributario, tenti di sostenere la legittimità della propria esazione contributiva, fondandola non sul beneficio specifico e diretto previsto ex lege, ma sulla mera ubicazione degli immobili all’interno del proprio comprensorio, argomentando che dalla natura tributaria del contributo consortile discende il proprio diritto di imposizione.
Anche in questo caso, l’argomentazione non può ritenersi corretta: infatti, la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, pur ammettendo la natura tributaria dei contributi, escludono del tutto la loro equiparabilità alle imposte. Secondo la citata giurisprudenza, il fondamento dei contributi consortili non è insito nella generica capacità contributiva dei cittadini, costituente invece la base del prelievo fiscale a sostegno della spesa pubblica, ma scaturisce esclusivamente dal concreto beneficio conseguito dagli immobili in forza del servizio erogato dal Consorzio. Pertanto, ai fini della soggezione contributiva, non è sufficiente l’ubicazione degli immobili nel perimetro di contribuenza, ma occorre che gli stessi abbiano o possano potenzialmente conseguire un beneficio particolare dall’esecuzione delle opere di bonifica. 
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha definito il principio secondo cui, ai fini della contribuenza, gli immobili devono conseguire un vantaggio fondiario ossia un incremento di valore direttamente riconducibile alle opere di bonifica ed alla loro manutenzione che si traduce in una qualità del fondo che può essere anche di tipo generale, quando riguarda un insieme rilevante di immobili ciascuno dei quali ricava un beneficio dall’opera consortile, ma non può essere generico, altrimenti si perderebbe l’inerenza al fondo beneficato, la quale è assicurata soltanto dal carattere particolare del vantaggio stesso. 
Secondo la giurisprudenza dominante, ai fini della legittima imposizione contributiva, non assume rilevanza il beneficio complessivo derivato dall’esecuzione di tutte le opere di bonifica, né il miglioramento complessivo dell’igiene e dell’assetto territoriale, bensì assume rilevanza la sussistenza di un rapporto causale tra le opere di bonifica e l’incremento di valore dell’immobile in relazione al quale il Consorzio pretende il contributo.
Non di rado, qualche Consorzio, sempre in sede di contenzioso, sostiene di essere esonerato dall’onere della prova circa la effettiva sussistenza del vantaggio che a ciascun terreno del comprensorio deriva dall’attività consortile.
A sostegno di tale asserzione, spesso vengono richiamate le sentenze di alcune Commissioni Tributarie Provinciali in forza delle quali si è affermata la legittimità dell’imposizione di contributi consortili alle proprietà ricadenti all’interno di uno specifico territorio. Ma tale citazione viene fatta in modo acritico senza tenere in considerazione il fatto che in particolari regioni, caratterizzate da specifiche morfologie territoriali e gravi problemi idrogeologici per prevenire i quali, o per porvi rimedio, si sono dovuti realizzare rilevanti e dispendiosi interventi di bonifica, in assenza dei quali ogni immobile ubicato nel comprensorio sarebbe stato esposto ad un rischio ambientale imminente e irreparabile.
Ciò non dimostra l’esistenza di un principio secondo cui l’ubicazione di un immobile all’interno del comprensorio legittima il Consorzio all’imposizione del contributo senza che da quest’ultimo venga fornita alcuna prova dell’esistenza del beneficio fondiario specifico e diretto.
La semplice ubicazione di un immobile all’interno di un comprensorio non costituisce la prova del fatto che lo stesso risulta migliorato, sotto l’aspetto fondiario, in forza delle opere di bonifica.
Cosicché, risulta inopportuno limitarsi a leggere la singola massima giurisprudenziale che afferma la legittimità dell’imposizione contributiva, senza comprendere in quale contesto territoriale si trova l’immobile che la sentenza ha dichiarato essere soggetto al contributo consortile.
Il dominante ed ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione conferma pienamente l’interpretazione prevalente delle corti di merito. Infatti, sin dall’anno 1984, la Suprema Corte a Sezioni Unite ha affermato la necessità della prova del vantaggio in derivazione causale con l’opera di bonifica e che non è sufficiente la mera inclusione di un immobile nel territorio appartenente al comprensorio perché si possa presumere il beneficio in favore del contribuente. La stessa Corte Costituzionale ha affermato che “la classificazione dell’intero territorio regionale come area di bonifica non comporta di per sé una generalizzata sottoposizione del predetto territorio ai vincoli di bonifica e, inoltre, non pregiudica affatto il principio che tali vincoli siano imposti soltanto in dipendenza di un bisogno effettivo di riassetto del territorio considerato e che i contributi siano richiesti ai privati soltanto in ragione dei benefici da essi conseguiti per effetto delle opere di bonifica”.
Alla luce di quanto detto, la pretesa impositiva del Consorzio diviene illegittima nel momento in cui quest’ultimo non riesca ad assolvere il proprio onere probatorio, consistente nella dimostrazione dell’esistenza del beneficio fondiario specifico e diretto in favore delle proprietà consorziate e della sua derivazione causale dall’attività consortile.
La tassa dei Consorzi di Bonifica è, pertanto, illegittima e a deciderlo è stata recentemente la Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo.
Il Consorzio, stabilisce la sentenza in linea con la giurisprudenza di Cassazione, non ha alcun diritto di imporre tasse di bonifica ai contribuenti che possono essere richieste solo in presenza di effettive migliorie e solo a coloro che di tali migliorie hanno usufruito. 
La tassa infatti è un tributo versato da un privato a un ente pubblico per un servizio erogato e si distingue dall’imposta per il fatto che quest’ultima è obbligatoria e non ha alcuna relazione con l’espletamento di un’attività o un servizio da parte dell’ente pubblico. 
L’avviso di pagamento inviato dal Consorzio di Bonifica ai cittadini impone una tassazione, supponendo che la somma richiesta corrisponda a un servizio. 
Il tributo viene richiesto ai proprietari degli immobili di qualsiasi natura che ricadano in un comprensorio di bonifica, per il fatto di ricevere benefici dall’attività di bonifica svolte dal consorzio, che opera per la manutenzione e l’esercizio degli impianti. Per sostenere le attività che il consorzio svolge con i suoi mezzi e con personale specializzato, il contributo viene imposto annualmente a ogni consorziato, secondo l’entità del “beneficio” che il suo immobile (terreno o fabbricato) riceve dall’attività.
Concorrono all’entità dell’importo della tassa, vari parametri quali: caratteristiche geomorfologiche, anche con riferimento al rischio idraulico e ambientale, potenzialità di sviluppo ed incremento di valore conseguito e conseguibile degli immobili, livello di fruizione e godimento dei beni, con riferimento a valutazioni del valore complessivo, attuale e futuro dei comprensori, rapportandolo alla presenza o meno dell’attività di bonifica e di conservazione del suolo, etc.
I Consorzi di Bonifica, quindi, sono tenuti a predisporre un piano di classifica che individui i benefici diretti, indiretti e potenziali, derivanti dall’attività di bonifica agli immobili ricadenti nei comprensori di appartenenza.
Inoltre, è onere dei Consorzi di Bonifica provare che le spese sostenute, hanno determinato un incremento di valore dell’immobile, in diretto e specifico rapporto causale con le opere di bonifica (e con la loro manutenzione) e tale da tradursi in una qualità del fondo.

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DIRITTO DEL LAVORO

LICENZIAMENTO

COLLETTIVO. 

PROCEDURA DI MOBILITÀ.

Con il termine procedura di mobilità oggi si indica il licenziamento collettivo, che l'imprenditore può adottare in presenza delle due seguenti condizioni, previste dalla Legge 223/1991.
La prima ricorre allorquando l'imprenditore, che ha già in atto sospensioni dal lavoro con intervento della Cassa integrazione guadagni straordinaria, ritenga di non poter attuare il risanamento o la ristrutturazione necessari al superamento della Cassa.
La seconda si verifica allorquando l'imprenditore, che occupi più di 15 dipendenti, intenda licenziare almeno 5 lavoratori, nell'arco di 120 giorni, in conseguenza di una riduzione o di una trasformazione di attività o di lavoro, o quando lo stesso intenda cessare l'attività.
In entrambi i casi, l'imprenditore deve seguire una specifica procedura prevista dalla legge, informando preventivamente le Rappresentanze sindacali aziendali e i Sindacati maggiormente rappresentativi.
L’informazione deve riguardare i motivi che impediscono l'adozione di strumenti alternativi al licenziamento e le misure eventualmente programmate per ridurne l'impatto sociale.
 A richiesta del sindacato, all'informazione dovrà seguire un esame congiunto, all'esito del quale le parti possono raggiungere un accordo, che individui - tra l'altro - i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare in maniera diversa da quelli indicati dalla legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze aziendali).
 Detti criteri rappresentano un aspetto di estrema rilevanza e la loro concreta applicazione è stata oggetto di controversie giudiziarie che hanno stabilito precisi limiti nella cd. determinazione pattizia tra datore di lavoro e sindacato per la loro definizione.
Importante sottolineare, altresì, come la giurisprudenza abbia definito anche ulteriori aspetti procedurali, quali la mancata segnalazione all’UPLMO dei criteri di scelta applicati, che generano la nullità dei licenziamenti.
Tale obbligo è stato confermato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, la quale ha, inoltre, precisato che la comunicazione deve essere inviata entro sette giorni dai licenziamenti.
 Peraltro, la stessa legge ha previsto la possibilità che gli eventuali vizi della comunicazione possano essere sanati ad ogni effetto di legge nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo.
Un altro tema oggetto di controversia riguarda la scelta dei lavoratori da porre in mobilità e, più specificamente, quale riferimento produttivo debba essere preso in considerazione nel caso di chiusura di uno stabilimento di una società con diverse sedi.
Altra questione che ha più volte sollecitato azioni giudiziarie riguarda l’individuazione della soglia prevista dalla Legge per l’applicabilità della procedura di mobilità, cioè in quale modo e con quale riferimento temporale si debba calcolare il numero dei dipendenti dell’impresa. 
La legge e la giurisprudenza hanno definito anche particolari forme di tutela per le lavoratrici donne, così come specifiche condizioni che possono determinare la riassunzione del lavoratore posto in mobilità.

A seguito della messa in mobilità, il lavoratore viene iscritto in un'apposita lista, che gli garantisce un accesso al lavoro agevolato.
Inoltre, il datore di lavoro ha la possibilità di assumere a termine, per non più di 12 mesi, i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità.
Il lavoratore in mobilità ha il diritto di percepire l'indennità di mobilità, a condizione che abbia almeno 12 mesi di anzianità aziendale (di cui 6 di lavoro effettivamente prestato), e sempre che il suo datore di lavoro rientri nel campo di applicazione della Cassa integrazione guadagni straordinaria.
Il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento collettivo illegittimo (per violazione delle procedure previste dalla legge o dei criteri di scelta ovvero perché intimato senza l’osservanza della forma scritta) è stato oggetto di profonde modifiche negli ultimi quattro anni: la riforma del 2012, prima, e il c.d. Jobs Act, poi, hanno significativamente diminuito le tutele offerte ai lavoratori licenziati, attraverso la sostanziale riduzione delle ipotesi in cui al datore di lavoro è fatto obbligo di reintegrare il dipendente licenziato nell’ambito di una procedura collettiva che non abbia rispettato la disciplina dettata dal legislatore.
In maniera simile a quanto sta accadendo per i licenziamenti individuali, dunque, anche in materia di licenziamenti collettivi la tutela reintegratoria sta progressivamente cedendo il passo alla più blanda tutela risarcitoria.
Va segnalato, inoltre, che, recentemente, il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. dalla l. 9 agosto 2018, n. 96, ha modificato l’assetto sanzionatorio originariamente previsto dal Jobs Act, aumentando l’importo delle indennità economiche dovute in caso di licenziamento ingiustificato.

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